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L'arrivo di Wang - Recensione

08/03/2012 | Recensioni |
L'arrivo di Wang - Recensione

Un film che inizia come un thriller e finisce come un fumetto originalissimo, fantasy, metaforico, simbolico. Non un film di genere ma una contaminazione di universi e linguaggi, un’interfaccia tra fantasia e realtà, tra fumetti e quotidianità.
L’arrivo di Wang, perdonateci il gioco di parole, arriva, spiazza, colpisce. E non potrebbe essere altrimenti, visto che si tratta di un’opera partorita dal genio imprevedibile e creativo dei romani Manetti Bros.
Gaia, un’interprete di cinese che sta lavorando alla traduzione di un film, viene chiamata per un lavoro urgentissimo, segretissimo e molto ben pagato. Mezz’ora dopo viene prelevata da un’automobile e si trova di fronte Curti, un agente privo di scrupoli e dai modi bruschi, che ha bisogno di lei per interrogare un misterioso signor Wang. Viene bendata durante il tragitto e condotta in un luogo non ben identificato: per la segretezza, l’interrogatorio avviene al buio. Ma Gaia non riesce a tradurre bene e chiede di accendere la luce. A questo punto la giovane interprete scopre, con sua grande sorpresa, perché l’identità del signor Wang viene tenuta celata. L’incontro con Wang cambierà per sempre la sua vita. Ma anche quella di tutto il pianeta terra.
Chi è davvero Wang? Da dove viene? Cosa è venuto a fare tra noi?
Ancora un problema di identità misteriosa e per nulla rassicurante. Da tempo il cinema americano sembra aver rinunciato ai punti di riferimento di un tempo, alla nozione tradizionale di corpo, alle componenti tranquillizzanti della nostra identità. Era ora che iniziasse a farlo anche il cinema italiano. Generi come la fantascienza e l’horror hanno messo davanti agli occhi di noi spettatori riflessioni inquietanti sull’altro, sul diverso, sul mostruoso e, nel cinema più recente, la sua identificazione con una realtà sfuggente, mutante, talvolta persino onirica. Ed ecco Wang. 
Il film dei Manetti ruota attorno a uno strano terzetto composto dal misterioso signor Wang che parla solo il cinese mandarino (l’idioma più diffuso al mondo) e da due persone diversissime che lo stanno interrogando. Una stanza chiusa, spoglia, un fuoco di domande, un interrogatorio al buio. E poi la luce.
Quello che ne esce fuori sorprendentemente è un vero fantasy nostrano, intriso di humour nero e arricchito da decise pennellate thriller. Variazione sul tema della diversità, il film punta su un argomento universale, la difficoltà di comprendere l’altro ma, in fondo, anche noi stessi. E mentre la tensione narrativa sale, si fa strada il vecchio pregiudizio nei confronti di chi ci appare come diverso per tentare, da un’angolazione inedita, di dare un colpo di scure a tutti gli stereotipi, eccessivamente buonisti o inutilmente violenti che siano.
Bella fotografia, pregevoli effetti speciali (ancor più ammirevoli se si pensa al basso budget), buona colonna sonora, ritmo che sale nel climax finale, un risultato più che apprezzabile che va ben oltre la facile e riduttiva etichetta del “cinema di genere”. Il grande merito dei talentuosi Manetti Bros. (tra i pochi autori giovani che hanno portato davvero un po’ di aria fresca nel panorama italiano dal Coliandro televisivo al Piano 17 per il grande schermo solo per fare due esempi) è di riuscire a tenersi lontani da quel buonismo dispensato a dosi eccessive dal cinema quando si mette a parlare del “diverso”. Viva il coraggio, viva la fantasia, viva l’originalità. Forse gli “alieni” del cinema made in Italy sono proprio loro.

Elena Bartoni

 


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